Generazione Uranio

Generazione Uranio

December 27th, 2008  |  Published in Testi

di Angelo Miotto e Matteo Scanni

Il nastro è datato 18 agosto 1996, come si legge chiaramente sulla parte inferiore del monitor, dove una striscia di cifre squadrate simili a quelle di un vecchio videogioco Atari galleggia in sovrimpressione. La mano dell’operatore fatica a tenere nell’inquadratura l’elicottero, che dopo un assordante volteggio sopra le tende dell’accampamento si sposta ai margini di una profonda buca di terra, lunga una decina di metri e larga cinque, attorno alla quale uno sciame di militari in divisa è impegnato a impilare centinaia di casse di legno chiaro contenenti armi e munizioni inesplose. Una colonia di formiche cariche di cibo, febbrili e precise nei movimenti. Gli uomini lavorano a mani nude, le maniche della mimetica rimboccate sopra i gomiti. L’ordine di servizio è di seppellire laggiù il materiale rinvenuto durante le perlustrazioni e farlo brillare.

L’immagine successiva mostra i militari accovacciati, in attesa del segnale, qualcuno si tiene la testa con le mani, per proteggere i timpani. Poi arrivano le esplosioni, violente: una, due, cinque. La telecamera filma lo spostamento d’aria che spazza il dorso di una radura e, subito dopo, una colonna di fumo a forma di fungo che sale nera e altissima. Il vento saturo di polvere che investe i militari e la terra che ricade sulle tende sono l’ultimo frame di questo vecchio videotape girato in Bosnia dal contingente di pace italiano. Per un decennio resterà chiuso in un cassetto e classificato top secret.

Tecnicamente l’Operazione Vulcano è stata una missione di bonifica ordinaria, ma al momento delle riprese i militari non conoscono gli effetti di quella polvere sul corpo umano, non sanno che in quella buca hanno sepolto armi all’uranio impoverito, non hanno ricevuto istruzioni specifiche, nessuno indossa tute o maschere di protezione. A distanza di pochi anni i 14 uomini della squadra Vulcano vengono falcidiati da un nemico invisibile: otto si ammalano, due muoiono di tumore, mentre altri due mettono al mondo figli con gravi malformazioni, scoprendo dagli esami microbiologici che anche il liquido seminale può trasformarsi in agente contaminante.

“Da quando si è ammalato ed è deceduto mio figlio, a casa mia non si sorride più, c’è sempre un silenzio di tomba, non ci sono più feste comandate né compleanni, per noi il tempo si è fermato”. Antonio Sepe ha alle spalle il mare di Napoli. Un naso deciso, rughe profonde sul viso, la barba sfatta, fuma a pieni polmoni mentre dalla fortezza di Castel dell’Ovo fissa un punto lontano all’orizzonte. Suo figlio Luca è morto, anche lui ucciso dall’uranio impoverito, un linfoma. Era entrato nell’esercito, per caso. Prima di presentare domanda, stava sempre accanto al padre nel laboratorio di Crispano, dove si riparano televisori e si installano paraboliche. I due hanno un legame speciale: “Quando arrivavamo in furgone da qualche cliente spesso ci scambiavano per fratelli - dice Antonio -. Ma all’epoca ero ancora in forma. Poi sono invecchiato di colpo”.

Nel 1996 Luca Sepe sistema l’impianto satellitare di un alto graduato dell’esercito. E’ bravo nel suo lavoro, si muove svelto sul tetto, quella per l’elettronica è una passione che sta pensando di mettere a frutto iscrivendosi a Ingegneria. Senza saperlo fa colpo sul militare. Qualche giorno dopo arriva la proposta di arruolamento, e di fronte a uno stipendio fisso cambiano le priorità. La stagione delle missioni internazionali inizia quasi subito. “Luca è stato con le Forze Armate a Peç e a Pristina, nello sfascio della guerra dei Balani - ricorda Antonio -. Doveva ripristinare i ponti radio bombardati dagli americani”.

Ma solo in Kosovo gli americani e i loro alleati hanno sparato 31 mila proiettili “speciali” e scaricato l’equivalente di dieci tonnellate di uranio impoverito, hanno sperimentato con disinvoltura armi in grado di perforare come burro la corazza di un tank, sprigionando nell’impatto radiazioni e polveri. “Ma ai nostri soldati non veniva detto niente, o al limite distribuivano mascherine di carta senza filtro - ricorda Antonio Sepe -. Qualcuno sapeva e ha taciuto, ed è per questo che i ragazzi si sono ammalati e sono morti. Al telefono Luca mi raccontava che gli altri eserciti erano equipaggiati con tute protettive, guanti, stivali, sembravano marziani. Era preoccupato, qualcosa non gli tornava”.

In poco più di dieci anni la “dead list” si è allungata in modo impressionante. Ad oggi sono 167 i militari italiani morti e 2540 quelli ammalati, anche se molti hanno preferito restare nell’ombra, mentre alcuni sono stati convinti al silenzio. I numeri sono dell’Osservatorio militare, coordinato da Domenico Leggiero, un elicotterista di Sesto Fiorentino che l’Esercito italiano ha messo a riposo quando la sua voce si è fatta imbarazzante. L’ex maresciallo Leggiero da anni cerca di rompere una barriera impenetrabile, di ricostruire uno scenario inquinato da statistiche e dati fasulli, chiedendo che lo Stato Maggiore della Difesa si assuma le sue responsabilità. “Sono responsabili perché sapevano - dice -. Nel 1990, durante la prima guerra del Golfo, il Dipartimento della Difesa americano diffuse nelle caserme del paese un video didattico in cui si spiegavano i rischi connessi all’esposizione all’uranio impoverito. Più tardi il filmato arriva anche in Italia, presso lo Stato Maggiore della Difesa, che però, finora, non l’ha mai mostrato ai nostri militari. Il risultato è che oggi un’intera generazione di soldati rischia di scomparire”.

Cosa c’è dentro quel video, consegnato agli eserciti della Nato perché possano prevenire gli effetti di una seconda Sindrome del Golfo? Le situazioni mostrate sono comuni in uno scenario bellico, le istruzioni dettagliate: dal lavaggio degli indumenti potenzialmente contaminati, al soccorso di un compagno ferito durante una bonifica. In un passaggio la voce dello speaker raccomanda: “La contaminazione radioattiva è un pericolo sia sul campo di battaglia che fuori. E’ fondamentale proteggere il personale durante le missioni. Se siete coinvolti in una situazione in cui si fa uso di uranio impoverito, ricordate queste regole: riducete al minimo il tempo di esposizione, state alla massima distanza possibile, usate vestiario protettivo”. “Per questo dico che lo Stato Maggiore della Difesa deve indennizzare le famiglie dei soldati morti - conclude Leggiero -, è il minimo che si possa fare”.

Luca Sepe è morto a Napoli nel 2006, dopo sei anni di calvario. Nel suo corpo sono state individuate poveri sottili e molecole con una composizione che non esiste in natura. Sono dappertutto: polmoni, milza, fegato, reni, intestino, pancreas. “Non è difficile capire perché - spiega la dottoressa Anotnietta Gatti, responsabile del Laboratorio dei biomateriali presso il Dipartimento di neuroscienze dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, che sta indagando sui tumori di decine di militari italiani -. Quando esplode, il proiettile arricchito d’uranio raggiunge temperature da fusione nucleare e libera nanoparticelle. Durante l’impatto la temperatura arriva a 3063 gradi: la materia colpita viene fusa e si formano dei piccoli aerosol che si comportano come un gas, disperdendosi in un raggio di decine di metri. Trovare all’interno di questi soldati polveri così sottili, in grossa quantità e con delle chimiche incredibili che non hanno riscontro nei manuali, dimostra che sono stati esposti a una forma particolare di inquinamento bellico, da uranio appunto”.

Tutte le analisi istologiche eseguite dalla dottoressa gatti raccontano la stessa storia. I militari che hanno preso parte alle missioni internazionali in Kosovo, Afghanistan e Iraq hanno i tessuti imbevuti delle stesse sostanze. Nel caso di Luca Sepe: rame, zinco e zirconio. Suo padre Antonio non riesce a darsi pace: “Il giorno prima che Luca morisse, dopo due notti insonni, sono crollato sul pavimento dell’ospedale. Lui voleva dormire per terra accanto a me - ricorda -. Dopo un’ora se ne è andato. I medici fingevano di ossigenarlo, ma lui era già deceduto. L’ho assistito sempre da solo, e l’ho fatto per cinque lunghissimi anni, senza che la verità venisse a galla. La tragedia che ho vissuto non la auguro nemmeno a quelli che hanno ammazzato questi ragazzi”.

L’avvocato Angelo Fiore Tartaglia ha raccolto decine di casi come quello di Luca Sepe e si è convinto che esiste una possibilità di ottenere almeno i risarcimenti. L’azione che ha promosso è una sorta di Class action per il riconoscimento dei danni morali, biologici, esistenziali e patrimoniali che tiene col fiato sospeso le famiglie dei militari deceduti. Finora lo Stato Maggiore della Difesa ha fatto di tutto per rendersi invisibile, mentre i ministri di turno hanno preferito mantenersi a distanza dal fascicolo “uranio impoverito”. “E’ una situazione destinata a peggiorare - spiega Tartaglia -, i morti aumenteranno col passare del tempo, come accade con l’amianto. Si partiva per le missioni internazionali in Kosovo, Afghanistan e Iraq senza equipaggiamento di protezione e si continua a partire nelle stesse identiche condizioni per il Libano. Molti dei ragazzi che si sono ammalati, a Sarajevo vivevano all’interno della caserma Tito Barrack, uno dei luoghi più bombardati con proiettili all’uranio impoverito. Nessuno li aveva avvertiti del pericolo”.

Emerico Laccetti ha 47 anni ed è sopravissuto a un linfoma non Hodgkin. Figlio e nipote di militari di carriera, ha organizzato decine di campi della Croce Rossa in giro per il mondo con il grado di comandante, l’ultimo a Tbilisi, in Georgia, dove ha aperto una cucina da 5000 pasti al giorno a una settimana dal conflitto con l’Ossezia del Sud. “La prima volta che ho sentito parlare dell’uranio impoverito è stato leggendo un giornale gratuito distribuito nella metropolitana di Roma - racconta -. L’ho incrociato in tutti i territori dell’ex Jugoslavia bombardati dalla Nato: Sarajevo, Zenica Tuzla, sicuramente a Kukes, quando stavo vicino a Morini. Dormivamo spesso dentro fabbricati bombardati. Ricordo la stanza di un ex ospedale: aveva un buco in una parete che ho ricoperto con un pezzo di cellophane perché faceva freddo. Ho raccolto la polvere con una scopa e l’ho messa in un angolo. Quello era il mio letto. Non abbiamo mai avuto maschere o guanti, niente mimetica di ricambio. Lavoravamo a mani nude”.

Emerico Laccetti ha esorcizzato la malattia e raccontato il suo ritorno alla vita in un libro, ma ogni sei mesi si sottopone a esami accurati. Sa che il male potrebbe ripresentarsi in ogni momento e sente di vivere in un corpo ormai minato. “Nessuno dei miei superiori si è mai fatto vivo quando stavo male, e non credo sia stato solo per imbarazzo - racconta -. L’unica telefonata interessata è stata quella della Commissione Mandelli, che dal 2000 lavorava per accertare gli aspetti medico-scientifici dei casi di tumore segnalati sui militari impegnati in Bosnia e Kosovo. Un giorno a casa squilla il telefono. Dall’altra parte una voce dice: “Buongiorno, vorrei parlare con il signor Laccetti, che presumo sia morto”. “Veramente no”, dico io. E lui: “Beh, magari non è morto, ma starà malissimo”. E io: “Guardi, tutto sommato sto bene”. Per loro eravamo soltanto dei numeri”.

Il periodo più duro per il comandante Laccetti è stato quello delle operazioni che hanno preceduto la chiemio. “Non sapevano se avrei passato la notte - dice - , avevo l’angoscia di lasciare sola mia moglie, mi tormentava l’idea che i miei tre figli, crescendo, non si sarebbero ricordati di me. E’ un pensiero insopportabile per un padre”.

C’è un dato che torna nei racconti dei militari contaminati dall’uranio impoverito: la sensazione di essere stati abbandonati dallo Stato. Chi si è ammalato e ha denunciato la propria situazione è stato congedato, emarginato, minacciato o messo nelle condizioni di non parlarne pubblicamente. Alcuni, ancora durante il periodo di riabilitazione ospedaliera, si sono visti comparire davanti i superiori, che li hanno invitati a firmare delle carte in cui si dichiarava che la malattia contratta era ereditaria o congenita, sollevando l’Esercito da ogni responsabilità.

Anche le Commissioni parlamentari d’inchiesta istituite a più riprese per ristabilire la verità dei fatti hanno dovuto alzare bandiera bianca di fronte alla pressione delle lobby militari. Nel 2006 è stato lo stesso presidente della Commissione, Luigi Malabarba, a denunciare che qualcuno, con regolarità spietata, versava sabbia negli ingranaggi. Non stupisce quindi che la relazione finale, pur ammettendo il ritrovamento di nanoparticelle prodotte dall’esplosione dei proiettili, non mette le morti dei militari direttamente in relazione con l’uranio impoverito”. E’ una chiosa ambigua, perché intanto la più importante legge dello Stato ha indirettamente ammesso una responsabilità. La Finanziaria 2008 ha stanziato tre milioni di euro a titolo di risarcimento per i militari malati, peccato che nessuno abbia mai scritto il regolamento attuativo necessario a sbloccarli. Risultato: soldi fermi, nessun riconoscimento di causa di servizio e decine di famiglie condannate ai debiti nel tentativo di ridare dignità ai propri figli colpiti dalle polveri di uranio.

E’ il caso di Salvatore Donatiello, ex sergente di Sparanise, in provincia di Caserta, colpito da linfoma non Hodgkin durante le esercitazioni al poligono interforze di Capo Teulada, in Sardegna. Un angolo di mondo dove qualsiasi esercito privato, pagando, può sperimentare ogni sorta di arma, convenzionale e non. Le popolazioni civili dei paesi che si affacciano sul poligono registrano negli ultimi anni un’impennata di tumori e decessi. “Mi sono ammalato nel 2004 - racconta -, dopo un periodo passato a sparare granate a lavare carri armati. Dormivamo e mangiavamo nelle tende, camminavamo su terreni non bonificati e c’erano dappertutto resti di proiettili di ogni tipo, anche americani”.

Angelo e Umberto Ciaccio sono inseparabili. Vengono dalla periferia di Afragola, rione Salicelle, un quartiere popolare assediato dai rifiuti e dalla camorra della profonda provincia napoletana. Angelo ha indossato la divisa dopo mille lavori in nero. E’ entrato nella più grande fabbrica di occupazione del Sud anche per aiutare la madre rimasta vedova, allettato dallo stipendio fisso e dalla possibilità di girare il mondo. Nonostante tutto quello che ha passato, è ancora orgoglioso di essere un militare e non si vergogna della testa rasata e della mascherina verde che deve portare davanti alla bocca dopo il trapianto al midollo. Parla delle sue missioni con entusiasmo. La prima risale al  13 settembre 2001, due giorni dopo l’attentato alle Torri Gemelle. “Dovevo fare il trasmettitore - racconta -. Ho prestato servizio a Sarajevo, alla caserma Tito Barrak, ma penso di essermi ammalato Iraq per i continui bombardamenti. Sono state le tempeste di sabbia a diffondere la contaminazione. Inizialmente non avevo sintomi. Ho fatto dei controlli, la classica radiografia del fegato. Ma quando mi sono trovato nella sala d’attesa del reparto di Oncologia ed ematologia ho realizzato che la situazione era grave”.

Il dramma della famiglia Ciaccio si consuma sul filo di una telefonata, in un paradosso quasi grottesco. Umberto lavora per un’azienda di Mestre che sviluppa sistemi di schermatura antiradiazione, quando viene raggiunto sul cellulare da Angelo, che gli spiega in lacrime la situazione. Umberto molla il lavoro e lo raggiunge. Da quel momento, per anni, lo accompagnerà ovunque. “Mi è stato accanto se c’era bisogno di andare dal medico, in lavanderia, si è trasferito con me a Milano durante il periodo di cura al Policlinico - racconta Angelo -. Insieme abbiamo diviso la stanza di un convitto e l’ansia delle visite di controllo. Ci sono voluti sei mesi solo per lasciare il letto d’ospedale”.

“Ho un ricordo un po’ sfocato, di quando eravamo bambini - aggiunge Umberto -. Mi ricordo quando a quattro o cinque anni giocavamo a calcio nel vicolo sotto casa, non passavano macchine e mio fratello faceva il portiere. Con la palla gli ho rotto quattro volte il setto nasale. Ricordo mio fratello che piangeva col sangue che colava lungo il viso. Ho dovuto lasciare il lavoro per venire a Milano da mio fratello, ma lo rifarei mille volte. Lui stava a Treviso, io ero da tre mesi a Mestre. In questi casi devi prendere la tua vita e metterla da parte. E’ successo il giorno in cui ho ricevuto da Milano la chiamata di un medico che mi informava della malattia di mio fratello, leucemia mieloide acuta. Per trenta secondi non ho parlato. Ricordo che chiesi di non dirgli nulla prima del mio arrivo. In dodici ore l’ho raggiunto e l’ho trovato in un letto d’ospedale che piangeva. In quel momento era l’immagine di quel bambino a cui avevo rotto il naso giocando a calcio”. “Chi dice Umberto dice santo - scherza Angelo -, senza di lui non ce l’avrei mai fatta”.

A Napoli Angelo ha una fidanzata che lo aspetta, ma la malattia gli impedisce di fare programmi a lunga scadenza. “Logico che vorrei sposarmi, sogno una famiglia, ma nelle mie condizioni non sopporto l’idea di lasciare una vedova con dei figli - dice -. Sono ancora molto provato, dalla mattina alla sera sto sempre sul letto, e comunque non posso fare molto. E’ come se fossi un bambino che aspetta di rinascere. E a 26 anni chi me li restituisce questi anni che ho perso per la malattia. Ho fatto decine di sedute di chemioterapia, sono due anni che sto combattendo contro questa malattia. Chi mi capisce, Dio?”.

di Angelo Miotto e Matteo Scanni

webmaster: Leonardo Brogioni

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8 settembre 2008, Bologna
convegno "Ammalarsi di uranio impoverito"


Intervento di Mauro Bulgarelli, membro Commissione parlamentare di inchiesta sull'uranio impoverito




Intervento di Antonietta Gatti, responsabile Laboratorio dei biomateriali presso il Dipartimento di neuroscienze dell'Università degli studi di Modena e Reggio Emilia




Intervento di Maurizio Torrealta, giornalista RaiNews24




Risultati Commissione parlamentare di inchiesta sull'uranio impoverito